A Erika, d’amore non si muore mai

Il sapore del panico si rimpasta in bocca, ancora più duro, respirando certe notizie. Facendole proprie, lasciando che si depositino lentamente sul fondo dei polmoni.

L’odore della morte risale ripugnante e dipinge davanti agli occhi quello stesso, malefico quadro.

Quello che Erika, negli ultimi attimi, avrà fissato. Senza capire, perché capire non si può. Senza darsi una fottuta ragione, perché non esiste.

Aveva seguito la scia della passione: quella del suo fidanzato. È che l’amore crea legami talmente indissolubili, quand’è puro, da far arrivare nell’anima una felicità ancora potenziale. Fa nascere in sé la voglia di condividerla, viverla: insieme, come si ci abitua a fare.

Erika, lasciatelo dire: amavi davvero, tu. E sì, anche se ora il dolore sovrasta ogni emozione, lo sforzo più grande deve essere pensare alla grandezza del suo amore. Quello per la vita, prima di tutto, che le ha dato le armi per combattere.

Lo ha fatto, da vera guerriera, ma a volte non basta. Non è bastato, ecco: la dannata verità è questa. Ma non è il finale, maledetto, che misura i giorni vissuti intensamente.

Quello lì, l’ultimo, lo stava diventando. Si sarebbe trasformato, in una manciata di minuti, in un fiume di lacrime e sogni infranti. Invece, no…

Invece, e non per fatalità, è diventato il tramonto di un sorriso.

Non per fatalità, anche se i motivi sono incommensurabilmente più insignificanti di una vita spezzata.

Ma ci sono, esistono, non possono essere trascurati: per Erika, per Kelvin, per chiunque fosse in Piazza San Carlo. Perché una catastrofe sfiorata – tragedia, ahinoi, lo è già diventata – possa essere da insegnamento.

Sotto le dita prende forma l’ansia di quella notte. Nelle orecchie rimbomba il frastuono del vetro che si frantuma e riempie l’aria. Sulla lingua si stende, di nuovo, quel velo di paura che tende a bloccarla. E addosso si posano le urla disperate, con la pesantezza che solo i ricordi sanno avere.

Non basta lavarsene le mani per sciacquarsi la coscienza. Non basta chiudere gli occhi per non vedere. Chi di dovere non ha vigilato, ha lasciato una città in balìa degli eventi.

Affidarsi alla sorte è un gioco pericoloso. E con la vita di 30mila persone non si può giocare.

Le domande sono tante, assillano la mente da settimane e, forse, non troveranno mai risposta. Anche perché la sete è talmente tanta da non poter essere placata da acqua poco limpida.

Perché allestire un solo maxischermo nella piazza principale?
Perché c’erano solo due uomini in divisa a presidiare l’accesso alla stessa piazza?
Perché non c’erano vie di fuga adeguate a un evento del genere? (E, credetemi, va fatto un applauso a chi ha gestito una situazione del genere, sia sul momento che nel tempo).
E perché Juventus non ha pensato di aprire lo Stadium ai propri tifosi, il proprio “asset” più prezioso?
Perché, dopo qualche vano tentativo iniziale, sono entrati ambulanti che vendevano bottiglie di vetro?

Perché, perché, perché…

Rimbalzano nelle pareti interne di ogni testa che si è trovata in quella frana umana. Quella che si è portata via Erika, ma non il suo Amore.

Quello rimarrà in eterno nei cuori di chi l’ha conosciuta, l’ha vissuta, guardata, respirata, amata. Quello dovrà essere la benzina per andare avanti. Dovrà essere il balsamo per ferite troppo cocenti, per sempre aperte. Dovrà essere il rifugio ideale quando i ricordi pioveranno forte.
Dovrà essere l’ancora di salvataggio nel mare del dolore e della disperazione che, in questi minuti, sembra tanto profondo quanto senza orizzonte.

Non importa essere credenti o meno, la certezza è una: Erika, in un modo o nell’altro, ci sarà. Anche dentro di noi, almeno un po’, da oggi e fino alla fine.

Ciao, Erika: d’amore non si muore, mai.

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