Lettera aperta alla Juventus Women: che storia!

La mia storia con le Women partí quest’estate, quando lessi dell’acquisto di Katie Zelem: scrissi l’articolo e cominciai a chiedermi se era il caso di seguire questa nuova avventura o meno. Nel dubbio, avendo in quel periodo il turno di sabato pomeriggio, seguii la prima di campionato contro il Mozzanica tramite la diretta streaming dal sito della Lega. Come molti altri nei miei panni, non sapevo chissà cosa del calcio femminile, dovevo informarmi per saperne di più. Fino a quel momento avevo visto ogni tanto la Nazionale, ogni tanto qualche partita, senza davvero interessarmene più di tanto. Con la Juventus però era tutt’altra cosa. La partita finì 3-0 per le bianconere, ed io decisi che dovevo buttarmi a capofitto su questo nuovo mondo, inesplorato dal grande pubblico, ignaro dell’esistenza di Barbara Bonansea, Martina Rosucci e compagnia bella (in molti sensi). La stessa ignoranza che mi ha portato sistematicamente a chiamare Rita Guarino “mister” anziché “coach” (ma almeno in finale ho avuto la redenzione dai!).

Io vivevo in Toscana, precisamente in uno sperdutissimo paesino chiamato Montigiano, provincia di Lucca; le possibilità di fare qualcosa nella vita in posti del genere raschiano lo zero assoluto. Da tempo avevo deciso di trasferirmi, solo dovevo capire se potevo farcela: non è da tutti i giorni cambiare radicalmente vita. Non avevo niente in mano, se non questo passatempo, hobby, sogno o come volete chiamarlo: scrivere articoli per SpazioJ. Dall’alto del mio nulla, decisi che era Torino il posto in cui trasferirmi, almeno avrei avuto la possibilità di crescere giornalisticamente parlando. Era il 7 ottobre: dovevo visitare una casa a Castagnole Piemonte. Presi il pullman alle 2.20 di mattina da Lucca per arrivare a vedere la casa alle 11,30 circa. L’agente immobiliare arrivò in ritardo e mi fece perdere l’ultimo pullman disponibile per Vinovo. Già: quel pomeriggio debuttavano le ragazze in casa. Così vicine, eppure così lontane: bastavano meno di 10 minuti in macchina, ma a piedi sarebbe servito molto di più. Feci una cosa che non penso di aver mai detto a nessuno, ovvero l’autostop. Trovai un passaggio da una macchina della Misericordia (nomen omen) ed arrivai lì.

Scrissi un pezzo in cui descrissi come mi piacque l’atmosfera che si respirava, così lontana dagli “arbitro venduto” e dalle offese che appestano i campi di calcio. Merito della JWS, Juventus Women Supporters, che in seguito mi accolse e che settimanalmente riceveva i miei bombardamenti di post ad ogni incontro delle ragazze.

Era il 7 ottobre e da lì capii che il mio trasferimento a Torino doveva arrivare, in un modo o nell’altro: volevo seguire le ragazze dal vivo, oltre a svoltare la mia vita da campagnolo degli anni ’50. C’è voluto più del dovuto ma alla fine riuscii in qualche modo a trovare casa: dovevo trovare un lavoro e il gioco era fatto. Derio e le Women: inizio di una nuova vita, inizio di una nuova era, un destino annodato più di quello che realmente potevo percepire. Ho cominciato a fare l’inviato, ruolo che ancora devo limare per sentire davvero mio. Ho imparato (e non smetterò mai di farlo) dai colleghi/amici: gli insegnamenti di Giovanni Albanese, di Simone Dinoi, di Cristiano Corbo, di Lorenzo Bettoni, di Edoardo Siddi, di chi mi è stato vicino all’Ale&Ricky.

Cominciavo a lavorare nello stesso momento in cui le ragazze cementificavano il loro primo posto in classifica: io e loro ci stavamo affermando in una realtà nuova. Non ci siamo mai conosciuti per davvero, se non per quello che succedeva in campo, o per quello che potevo scrivere nei post partita. Sarebbe stato bello potervi conoscere per quello che siete e non per quello che fate durante le partite. Quando parlavo di voi mi è capitato di trovarmi coinvolto in racconti anacronistici, di quando Torres e Bardolino vincevano i campionati, di Rosucci che incantava ai tempi delle medie, della Rappresentativa del Piemonte. Della Juventus Femminile, quella affrontata in Coppa Italia a dicembre. Mai mi dimenticherò Edo che, sullo 0-0 a 30 minuti dalla fine, disse: “Vincete prima dei supplementari che fa troppo freddo!” (per la cronaca segnarono Franssi e Caruso per il 2-0 finale). Il freddo vero e proprio però lo abbiamo vissuto contro la Fiorentina: cumuli di neve ghiacciata in qua e là e il gelo che penetrava tra sciarpe e giacconi. Inutili i tre paia di calzini, termici o non termici, i piedi erano congelati.

Continuando a parlare di momenti indimenticabili, mai mi scorderò la bolgia arrivata per il big match col Brescia, quello che doveva decidere se il campionato era finito o riaperto: pure noi giornalisti non sapevamo come passare, abituati ad entrare dalla stessa entrata dei tifosi. C’era un sacco di gente pure dietro la porta che dà sulla rotonda: non si saprà mai il numero esatto delle persone arrivate, di certo si supera le migliaia. Nel momento della tanto conclamata crisi, di cui tanti malignamente hanno cominciato a godere, ho iniziato a sentire il vero attaccamento alla squadra. Non un vero e proprio tifo da tifoso. Era (anzi, è) come quando investi su un progetto e speri che vada tutto bene. Come quando ad ottobre decisi che dovevo cambiare vita. I nostri destini incrociati si stavano stringendo, anche se nella rosa delle ragazze nessuno sa chi sono.

Arriviamo a Novara: con tutto il caos derivato da date, luoghi e orari, temevo di non poter essere presente. Sarebbe stato un rimpianto troppo grande per me saltare quella finale. Ma per fortuna esiste la ragionevolezza, e anche la fortuna. Non voglio dimenticarmi niente di quella sera: non mi scorderò il circolo in cui ci siamo spiaggiati in attesa dell’apertura dei cancelli. Non mi dimenticherò le zanzare davanti al finto box accrediti (avevamo sbagliato luogo!). Non mi dimenticherò di quella palla che non voleva entrare, né da una parte, né dall’altra. Non mi dimenticherò della traversa di Bonansea, dell’uscita a vuoto di Giuliani che mi ha gelato il sangue. Non mi voglio dimenticare l’ansia dei supplementari e l’agonia dei rigori, quelli che volevo evitare ad ogni costo, quelli che “se vanno ai rigori Barbara lo sbaglia” (auto-cit.) E infatti non mi scorderò mai dello sconforto al rigore sbagliato proprio da lei, il primo. Pensai che davvero poteva essere tutto finito. Non mi scorderò mai di quell’urlo tirato alla parata di Giuliani su Daleszczyk: ho urlato di istinto, forte. Prima di riprendere il mio ruolo e chiedere al giornalista al mio fianco: “Come diavolo si scrive Daleszczyk?” (e adesso credetemi, lo so come si scrive, senza fare copia incolla). Mai mi scorderò il rigore di Di Criscio: ho sperato più intensamente di prima che lo sbagliasse, e forse qualcuno mi ha ascoltato. Mai mi dimenticherò la faccia di Enrico Zambruno, che mi chiese se ero teso. Gli risposi: “Questa è la mia prima stagione da inviato, e mi sto giocando lo scudetto ai rigori”.

Già, la mia prima da inviato. Come la loro prima da campionesse. Ero un bambino al suo compleanno, godevo nel vedervi festeggiare. Godevo nell’essere lì con voi, in mezzo al campo che vi aveva visto diventare first. Ho vissuto il mio momento di gloria quando mi avete travolto durante la conferenza post partita di Guarino: stavate facendo un gran bordello, urli e botte piovevano come la pioggia che stava per arrivare. Inutilmente qualcuno vi faceva shhhh. Sentivo che sareste entrate, ma quando lo avete fatto mi avete preso comunque alla sprovvista. Un po’ come la grande pioggia che ci siamo presi per tornare a casa.

Dalla redazione qualcuno mi scriveva che era il mio scudetto: non lo è, ma è comunque mio. Me lo sento addosso, cucito. Non ho una coppa con me, ma una maglietta autografata da Barbara. Non ho medaglie al collo, ma un accredito stampa. Non ho attestati, al massimo il foglio delle formazioni. Tutti cimeli che custodirò gelosamente per testimoniare che quel giorno, quei giorni, quelle settimane, c’ero anch’io.

Mercoledì nel media day avrei voluto fare solo una cosa: ringraziarvi. Chissà che un giorno non possa farlo di persona anziché per mezzo di un editoriale scritto in una stranamente non piovosa notte torinese.

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