E poi arriva (sempre) Dani Alves

Il tempo non è galantuomo: è un meraviglioso figlio di buona donna. Uno di quelli col sorriso beffardo, mai pieno, né sincero. Uno di quelli che spesso illude, talvolta inganna, sempre dà sentenze ancor prima che mente e corpo inizino a sintonizzarsi sulle stesse frequenze. Di tanto in tanto, capita però che nel suo scorrere lasci anche entrare qualche ricordo, e che magari lo faccia riposare lì, nell’androne dei vecchi sogni realizzati. Ventisette, quelli di Dani Alves. Su trenta finali. Ma fidatevi: c’è ancora spazio, ce n’è ancora tanto.

C’è talmente vuoto da sentire l’eco delle urla di Allegri, fuori di testa se la troppa euforia si trasforma in poca generosità; c’è così tanto ‘vuoto’ che il brasiliano ha un solo modo per colmarlo: vincere. E farlo poi con il vizio dei più grandi, delle leggende come la storia gli ha imposto d’essere: decidendo le partite. Con un gol meraviglioso, se è la tua serata. O anche con una sovrapposizione premiata, una diagonale su Immobile di sana spavalderia, poi con tutta la concretezza che questo mondo ha saputo donargli.

E quindi con tutto il talento. E tutta la forza bruta di chi ha dovuto costruirsele da zero, quelle ali per volare così in alto. Di chi ha dovuto sudarle, di chi deve farlo ancora oggi. Di chi non s’accontenta d’aver viaggiato mano nella mano con la dea della vittoria: ha ancora voglia di farla innamorare, di girare il mondo assieme a lei. Di tenerle la mano per non perderla più, di stringerla forte quando arriveranno momenti più duri, quando starà per sfuggire. Di dimostrarle tutto l’amore, che sia con un destro al volo, o con l’ennesima corsa a perdifiato: ma esserci, star lì a tirar dritto, ad alzar la testa. A sorridere con una medaglia al collo.

Ché in fondo Dani ha sposato il bianconero per la ragione meno egoistica tra quelle più egoistiche: era sicuro di poter vincere, di poter contribuire ad un sogno, di poterlo fare subito. Di poter scrivere su foglio bianco con inchiostro nero una nuova storia di cui esserne orgogliosamente protagonista. Sapeva che sarebbe arrivato, prima o poi: l‘occasione del riscatto, come quel pallone di Alex Sandro sul secondo palo. Sapeva che qualche vecchio fantasma sarebbe stato accompagnato presto alla porta dei giorni da dimenticare. Che a fine maggio, volente o nolente, lui avrebbe chiuso abbastanza conti con se stesso. 

Dani Alves non ha solo vinto una Coppa Italia, probabilmente uno scudetto (e chissà cos’altro): ha vinto la sfida più bella, e cioè quella contro se stesso. Degli scettici non se n’è curato, non l’ha mai fatto: ma della sua opinione s’è fatto spesso forte, immenso quando la sua carriera gli ha dettato i tempi della storia del calcio. È stato un assolo di successi, il suo. Con conseguente dipendenza dai carichi di adrenalina, dagli appuntamenti col destino. In quest’attimo della sua carriera, aveva solo un bisogno estremo di percepire la grandezza delle occasioni colte, lo scorrere inesorabile di nuove sfide. Finora tutte vinte, tutte col suo marchio.

Che poi, quant’è devastante lo dimostrano anche i numeri: 5 reti segnate in stagione, suo record personale eguagliato. Nonostante l’inizio stentato, nonostante il serio infortunio, da buon lottatore non s’è solo rialzato: è ritornato più forte di prima. E ancora, nel mezzo di chiacchiere e parolieri, di etichette e idee prestampate, alla fine ha fatto prevalere la legge più equa di tutti: quella del più bravo. E lui lo è, il più bravo. Il più bravo di tutti. E il più decisivo di tutti. E il più vincente di tutti. Col costo zero dal valore infinito.

Cristiano Corbo

 

 

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