Juve “rigorosamente” in finale, ma…

Alla fine ha prevalso lo “stellone” Allegriano, ma che paura! La parodia di Juventus che nell’ecomostro milanese avrebbe dovuto gestire senza particolari affanni il vantaggio maturato in gara1 ha invece fatto di tutto per complicarsi la vita e regalare alla miglior Inter di stagione una notte da tramandare ai posteri.

Più friabile delle carta di riso, presuntuosa, remissiva e, come al solito, troppo prudente, la detentrice del titolo, apparentabile alla compagine che svetta in campionato solo per il colore delle maglie, ha palesato una prestazione imbarazzante, permettendo alla motivata avversaria di umiliarla durante tempi regolamentari che solo per pietoso eufemismo è possibile definire inguardabili.

I bianconeri, senza gioco né anima e schierati con una formazione alternativa che avrebbe dovuto sopperire alla mancanza di meccanismi collaudati con la voglia di mettersi in mostra dei giocatori meno impiegati, hanno denunciato un approccio alla partita, tecnico e mentale, assolutamente inadeguato che, stante l’incapacità di correggerlo in corso d’opera, li ha costretti a una deriva inesorabile e malinconica.

Per quanto osservato nell’arco temporale canonico avrebbero senz’altro meritato l’eliminazione. La parvenza di larvata normalità riaffiorata nell’extra time è solo parzialmente imputabile al sopravvenuto cambio di modulo, agli avvicendamenti o al miracolo statistico di aver azzeccato due, talvolta anche tre, passaggi consecutivi, perché è stato il fisiologico allentamento della presa ambrosiana che ha permesso alla zebra di abbandonare lo stato di coma vegetativo in cui versava.

I rigurgiti d’orgoglio conclusivi, che avrebbero potuto evitare l’ulteriore appendice dei calci di rigore ( stia sereno Simoni, erano tutti “regolari”… ) non diminuiscono di un grammo la gravità di quanto accaduto prima che, tuttavia, ha sorpreso in relativo, giacché da parecchie partite l’atteggiamento juventino, anche con altri interpreti, è volto esclusivamente alla perseveranza di un piccolo cabotaggio non si sa bene quanto voluto piuttosto che obbligato.

La sequenza dei penalty, che a dispetto dell’abusato luogo comune a cui ricorrono intrattenitori televisivi di varia specie non è una lotteria, ma bensì un esercizio tecnico, ha premiato la Compagnia dell’Acciuga alla quale, a giochi fatti, la brusca immersione nella vasca dell’umiltà e la ridefinizione di contorni più aderenti al suo effettivo potenziale, potrebbe solo far del bene.

All’interno di un quadro sconsolante, ma chiarificatore, sono emersi i limiti strutturali di una squadra che poco può attendersi dalle seconde linee e quelli contingenti di un gruppo abbastanza provato sotto il profilo nervoso e in grado di alzare l’asticella del proprio rendimento collettivo solo quando gli eventi lo spingono sulla soglia del baratro. Preclaro, al riguardo, il recente incontro con il Bayern Monaco.

Tra i figuranti della serata meneghina, l’unico ragionevolmente assolvibile è Asamoah, che al rientro dall’ennesimo acciacco, in condizione approssimativa e inserito in un centrocampo ridicolo è incorso in errori per lui inusuali e in un’esibizione alquanto incolore.

Nel disastro generale, il peggiore di tutti è stato però Rugani; sempre in difficoltà, saltato come un birillo, impreciso negli appoggi e costantemente mal posizionato, l’ex empolese, che merita comunque altre prove d’appello, perché il naufragio generale non è certamente ascrivibile alla sua attuale inadeguatezza a certi livelli, ha deluso quanti, troppi e senza giustificato motivo, ne pretendevano un utilizzo meno sporadico. A suo discapito deve però esser precisato che mai viene proposto nel ruolo più consono alle qualità che gli si riconoscono.

Quanto agli altri, il riscontro finale stende un rabberciato sudario sulle loro mancate performances e sulle discutibili modalità di preparazione dell’impegno operate dal “cinguettante”, la cui timorosa natura ha obnubilato le idee, inducendolo a scelte improvvide e financo ingenue.

La decrittazione tattica della partita, non annoverabile a un mistero per il quale occorresse scomodare Adam Kadmon, era addirittura banale poiché, da sempre, i chiamati a una rimonta sono particolarmente aggressivi e caricati a pallettoni sin dai primi vagiti della stessa. Sagacia imponeva di sorprenderli con pari foga, giocando seriamente quanto bastasse a segnare il golletto che avrebbe posato la pietra tombale su ogni velleità nerazzurra.

Sparare sul pianista è comunque inutile; il mantello dell’immunità posatogli sulle spalle dalla sua vasta claque lo protegge mistificando qualsiasi errore, pure quelli per cui lo stesso interessato ha già recitato il “mea culpa”…

Archiviato goffamente il capitolo Tim Cup, la Vecchia Signora dovrà render visita agli orobici atalantini. Il minimo sindacale auspicabile la pretenderebbe, se non arzilla, almeno sufficientemente sveglia e non è chiedere troppo.

Ezio MALETTO ( Twitter @EzioMaletto )

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