Dybala si racconta: “Alla morte di mio padre vedevo il dolore e dovevo andare avanti. Ad agosto la Juve voleva cedermi”

Paulo Dybala è ormai una grande realtà della Juventus di Maurizio Sarri. Il campione argentino si è raccontato al britannico The Guardian, toccando alcuni punti fondamentali della sua vita ma anche del suo recente passato, compreso il mancato trasferimento in Gran Bretagna la scorsa estate.

L’ESULTANZA DYBALA MASK

Dopo l’errore dal dischetto in Supercoppa Italiana ho visto Il Gladiatore. Ho pensato che a tutti accadono cose brutte, momenti difficili, ma bisogna andare avanti indossando la maschera come i gladiatori, e poi lottare. Era l’idea che volevo trasmettere.

RONALDO O MESSI?

Sono l’unico a condividere lo spogliatoio con entrambi ma le persone guardano solo la punta dell’iceberg e non il lavoro che si fa: entrambi non hanno vinto tutto solo perché sono fortunati. Chi è il migliore? Non posso rispondere (ride n.d.t.).

RISCALDAMENTO GLOBALE

Dobbiamo fare qualcosa contro il riscaldamento globale, dobbiamo cambiare: abbiamo solo un posto dove vivere.

LA POLONIA

Mio bisnonno era originario di Krasniow in Polonia, che ha solo 49 abitanti, si chiamava Boleslaw. Durante la guerra fu mandato in un campo di lavoro nazista e alla fine è partito per l’Argentina, dormendo nei campi di mais: è quasi morto per questo. Non è rimasto nessuno dei miei parenti in Polonia, solo qualcuno in Canada. Ho provato ad ottenere un passaporto polacco ma alla fine è arrivato quello italiano grazie a mia madre. Un giorno otterrò anche quello: forse mi sento più polacco che italiano. Mio padre aveva una personalità molto polacca, come mio fratello: gli italiani sono più emotivi.

LA SUA INFANZIA

(Il padre di Dybala è morto quando lui aveva 15 anni, n.d.t.). Ero piccolo ed è stato molto difficile: mamma e i miei fratelli hanno sofferto molto. Vedevo il dolore e dovevo continuare ad andare avanti: non sono stato il primo e non sarò l’ultimo. Questo è il cerchio della vita: abbiamo qualcuno ci aiuta dall’alto ora. Il mio rifugio fu la mia famiglia: quando l’Insitituto Cordoba mi ha chiamato avevo 15 anni e non volevo andarci, non mi rifugiavo nel calcio.

L’ITALIA

Nel 2012 sono andato a Palermo. Era tutto nuovo, la squadra andava male, anche se lottavamo i risultati erano negativi. Ero un ragazzino e solo ora sono grato a quella esperienza perché mi è servita da lezione: alla Juventus si vince sempre, no? Allora mi accadeva l’opposto. Il primo anno fu negativo ma il secondo vincemmo la Serie B. Pagarono 8 milioni per un ragazzino di 17 anni, il più alto trasferimento della storia del Palermo: me ne andai per 40. Oggi sapete quanto pagano...

LA JUVENTUS

Alla Juventus è la quinta stagione e anche se ho giocato 200 partite mi sembra di essere arrivato ieri: avrei ancora 10 anni [da calciatore] ma le cose passano velocemente. Sono felice, a mio agio, ma in estate sono stato vicino alla cessione. Sapevo che ciò era nei pensieri del club. Fino all’ultimo secondo stavamo aspettando. Ora ho due anni di contratto, non è poco ma neanche tantissimo. Dobbiamo vedere quali programmi ha la Juventus, se vogliono cedermi nel prossimo calciomercato o farmi rimanere: la decisione è del club, è difficile da sapere siccome le cose possono cambiare in un secondo.

IL PRESENTE

Ora sto bene, il club mi tratta bene, mi ha aiutato l’arrivo di Sarri. Ha voluto che rimanessi, mi ha dato forza anche quando non sapevamo cosa sarebbe successo [eventuale cessione, n.d.t.]. Lui ha tirato fuori il meglio da me. Senza palla mi annoio: sono fortunato a giocare in una squadra che vuole fare possesso siccome ho molte opportunità per toccare il pallone. Non penso di avere solo due occasioni a partita, infatti se perdo palla la riprendiamo. Pjanic fa oltre 120 tocchi a partita. Sarri vuole giocare a uno due tocchi, muovere palla velocemente, ma in difesa non abbiamo libertà perché è tutto preciso. In attacco è diverso siccome con due secondi per pensare dobbiamo improvvisare, anche se i movimenti di tutti sono studiati durante la settimana.

IL CALCIO

Abbiamo perso molto nel calcio: non ci sono più ragazzini che costruiscono le porte con le pietre nelle piazze. La tecnologia la fa da padrone e abbiamo perso improvvisazione: le accademie sono troppo perfette. Col tempo noi professionisti capiamo cosa abbiamo perso e in parte lo riprendiamo quando incontriamo allenatori che ci danno libertà: è la migliore cosa che può accadere e io posso giocare come sempre ho fatto, ovvero con il pallone. Non dobbiamo mai dimenticare che è un gioco e che da piccoli giocavamo per divertirci: siamo partiti così e siamo sempre così. Abbiamo tutti un bambino dentro di noi e non dovremmo mai lasciarlo indietro.

Traduzione a cura di Christian Carnevale.