Il Milan ai cinesi, fine di un’epoca: le colpe di uno scenario inquietante (non per tutti)

Il Milan venduto ai cinesi rappresenta la fine di un’epoca: non soltanto del binomio calcio-Berusconi, che ha fatto storia comunque la si voglia vedere, quanto del calcio italiano come industria. Perché se due delle più importanti squadre italiane non solleticano più gli appetiti della finanza italiana, vuol dire che il problema è sistemico e riguarda tutti. C’è poco da essere romantici o radical-chic in questo: se la terza economia del paese non “tira”, il paese stesso è messo male perché gli investimenti vengono de-localizzati, le risorse interne non vengono sfruttate, si investe altrove.

LA CINA ALLA CONQUISTA DELL’OCCIDENTE. Il mappamondo ha cambiato verso: ora sono i cinesi a vedere l’Italia come trampolino di lancio verso l’Occidente, mentre gli italiani investono nel paese del Dragone. Lo scorso anno, la Cina ha investito più di 10 miliardi di dollari in Italia, più di 100 imprese cinesi sono entrate in Italia, che è già diventata una delle destinazioni principali di investimento cinese, nell’ambito dell’Unione Europea. Nel 2014 il Pil cinese ha superato i 10 mila miliardi di dollari, con un incremento del 7,4%, il valore dell’import-export è giunto ai 4,300 miliardi di dollari, gli investimenti diretti all’estero hanno superato i 100 miliardi di dollari.  Un quadro che definiremmo “sconfortante” per il capitalismo italiano in perenne affanno.

FUGA DAL CALCIO. Come pretendere allora che il calcio attragga investitori “nostrani”? Con gli stadi fatiscenti, le tifoserie violente e i diritti tv mal distribuiti? Oppure con politiche di marketing affidate “a terzi” (vedi Infront), nella totale incapacità di piani industriali atti ad aggredire mercati in espansione? O meglio, senza alcun investimento infrastrutturale o nei settori giovanili? La gestione societaria di Milan e Inter è stata dispendiosa e fallimentare negli ultimi anni, ma ha rappresentato soprattutto una metafora dell’economia italiana, in cui le grandi famiglie industriali pensano solo a coltivare il proprio “orticello” senza provare a intraprendere un discorso che sia “sistemico”. “Guadagno più che posso oggi, per poi scappare domani”. Incapacità cronica della grande borghesia italiana, incapace di un respiro d’insieme e prospettico.

LA LEZIONE DELLA JUVENTUS. Ecco perché la Juventus si sta elevando rispetto a tutte le altre: non conta l’aspetto “romantico” della famiglia Agnelli alla guida da oltre 90 anni. Qui si parla di alta finanza, dove di romantico non c’è nulla: la società bianconera ha tracciato un solco nel quale il calcio italiano dovrebbe inserirsi, pena il continuo immiserimento e l’inevitabile aumento del distacco dai bianconeri (anche sul campo). Agnelli parla di mutualità, di diritti tv, di legge sugli stadi, di riforma della Lega Calcio, di infrastrutture e settori giovanili, di “aggressive marketing” verso i mercati orientali, africani e americani, di squadre-B dove far crescere i propri giocatori. Miglioramenti sistemici e non autoreferenziali, punti su cui tutto il movimento calcistico dovrebbe riflettere.

I PRESIDENTI-SIGNOROTTI. La storia dell’Italia però parla per sé: a ognuno secondo il proprio orticello, a ognuno secondo le proprie (scarse) capacità manageriali. Nella finanza, nel calcio. Se Berlusconi vende ai cinesi, se Moratti lascia ai Thohir (o a chi per lui), in Italia restano i presidenti-padroni in stile De Laurentiis, Lotito e Zamparini il cui orizzonte può essere al massimo quello del proprio feudo o del proprio naso. Chi si accontenta gode, basta che poi non si accusi chi vince di “tirannia” o peggio: sarebbe il modo peggiore per nascondere la propria incapacità.

Gennaro Acunzo

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