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Dybala si racconta a El Gráfico: dalle origini al debutto con l’Argentina e i sogni del futuro

Una lunghissima intervista, quasi una confessione: le origini, l’arrivo nel calcio dei grandi, i sogni per il futuro. Dybala dice tutto, ma proprio tutto, al periodico argentino “El Gráfico”. Un lungo viaggio che arriva fino a Torino, partito da lontano, da Laguna Larga: “Ti manca sempre”, dice Paulo. “Con il tempo ti abitui a un’altra vita: il primo anno è stato il più difficile, ma sto per iniziare la mia quinta stagione in Italia, è come se la mia vita si stia formando qui. Mi mancano i miei amici, casa mia, Laguna Larga, la mia famiglia, tutto quello che mi circondava, che non sono cose che posso portrarmi dietro. Personalmente, qui sto molto bene, la gente mi tratta bene, mi fanno sentire a mio agio. Va tutto bene, ma io vengo da un paesino piccolo, dove mi amano molto e logicamente mi manca”.

“Laguna Larga è casa mia, vada dove vada, ovunque stia, ci tornerò sempre. È dove sono cresciuto, ci sono i miei amici, la mia famiglia, dove ho iniziato a fare i miei primi passi, ho iniziato a giocare a calcio. Mi ricorderò sempre della gente che mi ha aiutato a compiere il mio sogno. È un paese dove conosco quasi tutti. È casa mia”.

DYBALA_BANDERA
La bandiera per Paulo

Un amore che spesso gli dimostrano ancora. Come hanno fatto alcuni suoi amici, che gli hanno dedicato una bandiera, con il suo volto e la scritta ‘Laguna Larga’: “So

Dybala mostra orgoglioso la maglia di Gigi

no tre miei amici (ride, ndr), la avevano fatta per le partite di qualificazione e sono venuti senza dirmi niente”.

Un viaggio lungo, dicevamo, che è continuato in Italia. A Palermo, per la precisione. E in rosanero, come fosse uno scherzo del destino, aveva già la maglietta di Buffon, custodita come un tesoro. A un anno di distanza, Gigi è un suo compagno di squadra: “Ho avuto la possibilità di conoscerlo quest’anno. Un grandissimo leader. Si nota quando difende la nostra porta. Fa la differenza. È una persona molto importante per ciò che rappresenta per noi, i suoi compagni, e anche per quello che rappresenta nella storia del calcio. Da bambino mi piaceva e credo che sia il migliore o uno dei migliori portieri della storia”.

Buffon, ma non solo in questo primo anno di Juve: “Ho dato tutto, più o meno come immaginavo appena arrivato. È stato molto bello. A volte, mi sarebbe piaciuto arrivare un po’ più lontano in Champions. A livello personale, sono molto contento, perché ho raggiunto i miei obiettivi”.

Un’avventura iniziata a giugno del 2015, poco prima che i bianconeri giocassero la finale di Champions: “Sapevo che non sarebbe stato facile, era un passo molto importante nella mia carriera firmare per un club così grande come la Juventus, dopo quanto ho lottato per raggiungere i miei obiettivi. Arrivare in una squadra tanto importante in Europa, voler vincere, è il sogno di ogni calciatore. Il giorno che mi dissero che dovevo firmare ho avuto molte sensazioni ed è difficile da spiegare, perché non è una cosa da tutti i giorni”.

E, come se non bastasse, Paulo si è scelto pure un numero… impegnativo: “Indossare la maglia della Juve è già un peso molto grande, con tutta la sua storia, per ciò che rappresenta in Italia e nel mondo. All’Instituto ho sempre giocato con la 9, a Palermo pure, e quando sono arrivato qui l’aveva Morata e voleva continuare con quel numero. Se ne stava andando Pirlo, un idolo che lasciava la 21, ma l’ho preso lo stesso: la 21 è come la 10 nella Juventus. Un numero importante. È stato anche come mettermi alla prova, perché più che con il peso della maglia, volevo confrontarmi con il peso di questo numero che rappresenta tanto qui. È stata una sfida per me stesso e sono molto contento di com’è andata: aver fatto i gol che ho fatto e aver vinto questo campionato mi ha tolto un peso molto grande”.

Ecco: una sfida vinta, in tutto e per tutto. Grazie anche ai compagni di squadra: “Da dentro allo spogliatoio, condividendo tanti momenti tutti i giorni, si vive diversamente da come si pensa fuori. Tutti li vedono come i grandi calciatori che sono e vorrebbero conoscerli. Da dentro mi sento un privilegiato per i momenti che viviamo. Stare in uno spogliatoio con giocatori come Buffon, Evra, Pogba, Barzagli, Bonucci… dovrei nominare venti calciatori, perché tutti sono importanti, hanno vinto tantissimo. Vivo cose stupende e rare, a volte. Da bambino l’ho sognato, volevo sapere come erano e ora che lo vivo da dentro, è differente: a volte, uno non se ne rende conto, sono cose che molta gente vorrebbe vivere”.

E, ora, lo sguardo va più in là, al Pallone d’oro: “Credo che sia molto presto e sarebbe esagerato parlare di un Pallone d’oro per me. In questo momento ci sono moltissimi calciatori che stanno vivendo momenti molto buoni nei club più importanti del mondo. Apprezzo gli elogi, vanno bene e li uso per acquistare fiducia e continuare a lavorare, ma credo che sia presto per parlare di vincere il Pallone d’oro. Logicamente, come calciatore spero di riuscirci un giorno, con sacrifici e lavoro. Così si possono raggiungere gli obiettivi: lavorando“.

Il lavoro, già, che l’ha portato fino alla nazionale argentina: “Ci sono poche cose come giocare con la Selección, perché quando stavo per entrare contro il Paraguay, personalmente, ho avuto sensazioni che non avevo mai provato nella mia vita. Non ho mai sentito le mani che mi sudavano, non mi era successo né all’Instituto, né alla Juve. Mai. Giocare con la nazionale non ha eguali: rappresentare il tuo paese, con i calciatori che ci sono, che sicuramente sono tra i migliori del mondo, ed essere dove hai sempre sognato, è difficile da spiegare… sono sensazioni rare”.

 

Nell’ultima convocazione, quando si è infortunato, ha conosciuto Messi – assente nella precedente occasione: “È stato stupendo incontrare il mio idolo; come dicevo prima, sono sensazioni difficili da spiegare. Entare in un gruppo nuovo come quello della Selección, con giocatori importanti, è spettacolare. Ho provato a godermelo, sapendo che devo fare un passo alla volta. Era un sogno arrivare in nazionale e ora ne approfitto per imparare dai calciatori che ci sono. Sicuramente posso rubargli molto per imparare”.

Ora manca solo il gol: “Se non mi avessero annulato il gol contro la Colombia. Ero arrabbiato, perché dopo ho visto in televisione che non era fuorigioco. Era un golazo? Fa lo stesso, il primo gol non importa come sia. Mi piacerebbe fare gol con la Selección, sarebbe un alto sogno compiuto. Ma già stare qui e dare il massimo mi rende felice. Fare un gol è tutto per un attaccante, immagina cosa deve essere farlo in nazionale”.

Dybala, prima di entrare contro la Colombia

Villalobo, il giornalista del ‘Gráfico’ che ha realizzato quest’intervista, gli ha dato il soprannome “La Joya”. Lo stesso Dybala, in un documentario della tv polacca, da dove viene suo nonno Boleslaw, aveva detto: “Un giornalista argentino, nostro amico, dopo la seconda partita che ho giocato, in cui ho sognato, mi ha dato questo soprannome, perché diceva che sarei diventato un diamante”. Racconta Villalobo che, a maggio di quest’anno, Paulo gli ha detto, scherzando: “Hai visto? Ancora tutti mi chiamano La Joya, per colpa tua. Qui sono pazzi per questo soprannome”.

“Mi piace. A Palermo si erano fermati un po’, ma da quando sono arrivato qui, alla Juve, tutti mi chiamano così. Anche i miei compagni. Bonucci prima della partita, dentro il campo, mi grida: “Andiamo Joya, dobbiamo vincere”. Io rido. Mi piace perché è originale, non molti calciatori sono chiamati così”.

“El pibe de la pensión”, è stato il titolo della prima intervista di Dybala, quando era ancora all’Instituto e muoveva i primi passi: “Ho molti ricordi della pensione dell’Instituto a La Agustina,  perché sono stato uno di quelli che l’ha inaugurata. Prima vivevo in un’altra pensione che dividevo con Pablo Burzio e Andrés Chorne, la chiamavamo la ‘pensión de la Faustina’, perché era una signora che si prendeva cura di noi. Quando hanno costruito la nuova pensione, ci hanno trasferito lì, dove ho moltissimi buoni ricordi. Ci sono stato un anno e ho condiviso molte cose con gli amici, ho conosciuto gente di altri posti che erano arrivati come me, con tanta speranza. Vivevamo nel club: l’Instituto mi ha insegnato tanto, mi ha inssegnato a convivere. È stato bellissimo, perché a noi che venivamo da fuori ci hanno accolto molto bene”.

Se c’è una cosa che sorprende di Paulo, è l’incredibile umiltà. Nonostante il successo, resiste alle tante tentazioni della fama: “Credo che sia per come mi ha cresciuto la mia famiglia. I miei genitori mi hanno cresciuto così. Anche per come mi hanno aiutato i miei fratelli quando mio padre non c’era più. E pure per come mi ha allevato l’Instituto. È un insieme di cose che ho messo insieme nella mia vita. Ho sempre cercato di continuare sullo stesso cammino. Pure se gioco in Europa o le cose vanno bene, non devo cambiare il mio modo di essere, ognuno deve essere com’è. Se vedete che qualcuno si sente superiore, è perché in tutta la sua vita è stato così. La mia famiglia mi ha inseganto a essere umile, lo sono stato da bambino e continuo a essere così. E non devo cambiare perché vinco qualcosa. Sono sempre stato così per gli insegnamenti della mia famiglia”.

Beltrán, Ruiz, Arnoldi, Domínguez, Gotti, Francucci. Sono nomi che per Paulo significano “un gruppo di Whatsapp (ride, ndr), sono tutti quelli che sono membri. Sono amici ed ex-compagni delle giovanili dell’Instituto. Un gruppo stupendo, ogni volta che sono insieme a loro giochiamo a calcio, mangiamo un asado, parliamo. Dai 10 ai 18 anni, quando ero a Córdoba, ho giocato con loro e mi hanno aiutato moltissimo. E condividiamo ancora momenti magnifici. Si è creata una grande amicizia e proviamo a stare insieme anche solo per prendere una Coca Cola”.

L’Instituto, gioia e dolori. Come quello, grande, della mancata promozione nel 2012: “È ancora una spina nel fioanco, perché non dimentico di essere stato a 90 minuti da… – la sua voce diventa timorosa e si ferma a pensare per qualche secondo – da raggiungere qualcosa di incredibile che sognavamo e meritavamo. Era un grande gruppo. Darío Franco ci ha aiutato molto, si era costruito una squadra fantasttica e per una partita non è potuto essere… ti dà una rabbia assurda. Più di essere diventato campione con la Juve, non posso dimenticare quella partita contro il Ferro. Così abbiamo perso la promozione, più della partita che abbiamo giocato con il San Lorenzo”.

Dybala piange, dopo San Lorenzo-Instituto

Dopo la finale dei play-off, proprio contro il San Lorenzo, Dybala scoppiò a piangere e l’allenatore aveva provato a consolarlo: “Non mi ricordo cosa mi avesse detto, perché avevo la testa altrove. Ascoltavo, c’erano 40mila persone con tutto quel frastuono, ma nella mia testa c’era silenzio. Ero frustato, incazzato, triste… non poteva essere dopo l’anno che avevamo passato. Avevo tanta voglia di guadagnare la promozione con l’Instituto e ci è scappata ingiustamente. Nessuno giocava come noi con Franco”.

In fondo, però, Paulo sapeva che quello sarebbe stato solo l’inizio e che sarebbe arrivato in alto: “Lo immaginavo, ma non così presto. È stato tutto molto veloce. Ho sempre sognato di essere qui, ma non so se di essere alla Juve a 22 anni, dopo di tre anni al Palermo. Ho sempre immaginato di vincere nel calcio, era quello che più volevo. E già che siamo nel tema, non credo che all’Instituto ci fossero molti che speravano che arrivassi qui. Era difficile pensarlo, ovviamente. Immaginare di giocare con Selección…”

Dybala è molto legato all’Argentina e non chiude a un suo ritorno: “Per ora non ci penso . Forse ho una carriera lunga qua. E se sto bene fisicamente, mi piacerebbe giocare in Primera, perché sarebbe un sogno andare alla Bombonera o nel campo dell’Independiente o del Racing: al Monumental ho giocato con l’Instituto, ma mi piacerebbe farlo in Primera. Sì, forse un giorno potrei tornare”.

Dybala col papà. (fonte: Gazzetta)

Forse anche per la famiglia, che è sempre al suo fianco. Anche se qualcuno non c’è più: “In campo alzo due volte le braccia al cielo, quando segno. Quando entro in campo chiedo la forza a mio padre e, se faccio un gol, lo ringrazio, perché dall’alto sicuramente mi sta aiutando moltissimo. Nella mia vita, la mia famiglia è tutto. Se non fosse per loro, non sarei qui: mia mamma, che porto ovunque, e i miei fratelli, che sono sempre con me. Più della fortuna che ho avuto di compiere il sogno di mio padre, lo faccio per mia mamma che ha sofferto moltissimo (si emoziona, ndr) e, anche se non lo dimostra, soffre ancora, come me e i miei fratelli”.

Una delle passioni nascoste di Paulo è la lettura e, ultimamente, è impegnato con un libro su Guardiola: “È un tecnico che dimostrato in questi anni e, ancora di più, quando era al Barcellona che il suo stile di gioco è molto buono, e a calciatori come me renderebbe le cose più facile. È più o meno quello che ci chiedeva Darío Franco. Ho un libro di Guardiola, che mi ha regalato un amico e ho iniziato a leggerlo. Ammiro il suo gioco, che è molto efficace, come quello di altri allenatori tipo Simeone, che è ‘contrario’ al suo gioco e comunuqe lo ha buttato fuori dalla Champions”.

Instituto, Palermo e Juve in tre parole: “L’Instituto è come mia mamma, che mi ha aiutato a crescere, mi ha insegnato tutto. Il Palermo è la mia prima fidanzata e la Juve la mia fidanzata da grande“. E se dovesse scegliere i tre gol più emozionanti della carriera… ha qualche dubbio, ma non scontenta nessuno: “Il primo gol con l’Instituto, contro l’Aldosivi a Mar del Plata. È una domanda difficile: il secondo, quello che ho fatto al Milan a San Siro, con la maglia del Palermo. E il terzo, quello che ho segnato nella Supercoppa che abbiamo vinto con la Juve contro la Lazio. Ne ho scelto uno per club (ride, ndr). E il quarto, forse sarà quello che farò con la Selección“.

Traduzione a cura di SpazioJ.it.

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This post was last modified on 6 Luglio 2016 - 18:30

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