La Viola, la Juve e una rivalità a senso unico

Deglutito con qualche stranguglione di troppo un turno di Tim Cup “macchiato” Latte Lath, per la Juventus si profila immediatamente un impegno che le richiederà un ben più efferato ricorso alle fauci, giacché il menu domenicale prevederà una Fiorentina che il suo chef, stimolato dalle voci che lo accreditano prossimo titolare della panchina bianconera, preparerà a puntino.

L’escursione nella Medicea ci offre il destro per rivisitare sinteticamente le ragioni storiche di una rivalità a senso unico, parzialmente ascrivibile a una mentalità retriva e in nessuna misura giustificata dal curriculum sportivo delle due Società.

Secondo certa memoria d’antan, la madre di ogni dissapore ha esordito nel lontano 1928, quando la squadra viola, allora in SerieA per grazia (politica) ricevuta e zeppa di volenterosi dilettanti, non suscitò alcuna pietà nei contraltari subalpini che la travolsero con un umiliante 11-0 sul campo Juventus di corso Marsiglia in Torino.

L’antipatia (eufemismo), nacque allora, ma il fenomeno si attestò in dimensioni locali e contenute per molti anni, anche a dispetto di qualche campionato e di una Coppa Italia, in cui, qualche pretesto per rinfocolarlo, non sarebbe mancato.

La stagione 1981-’82 è quella che spazzolò via la polvere del tempo per riesumare quella pirica; detonò in tutta la sua deflagrante potenza il 16 maggio, giorno in cui si decise l’estenuante testa a testa di un torneo caratterizzato da continue polemiche relative alle decisioni arbitrali. Ai gigliati, di scena a Cagliari, fu annullato un goal di Graziani ritenuto regolare, mentre i bianconeri vinsero a Catanzaro partita e scudetto, con un rigore realizzato da L. Brady, sull’assegnazione del quale fiorirono, come al solito, varie interpretazioni e teoremi…

Nel 1990 le due compagini si ritrovarono in finale di Coppa Uefa. Grandi malumori verterono sulla designazione della sede in cui disputare la partita di ritorno, visto che il campo di Firenze era stato giustamente squalificato. Fu individuata in Avellino e questo prestò il fianco a larghe contestazioni, dacché la città campana era ritenuta un feudo bianconero.

Il vero psicodramma si scatenò, però, prima della gara d’andata. Due giorni prima, infatti, fu ufficializzato il passaggio di R. Baggio alla corte di Madama; juventino suo malgrado, sbagliò clamorosamente una sesquipedale occasione da rete a tu per tu con Tacconi, in un clima venefico, denso di tensioni, risse, provocazioni e fallacci impuniti.

A seguito di quegli avvenimenti, la partita del 6 aprile 1991 diventò quella che, probabilmente, scalda più di ogni altra il cuore dei fiorentini. Un match che considerano memorabile non solo per la vittoria siglata da Fuser, ma per la coreografia allestita dalla curva Fiesole, volta a riprodurre i monumenti cittadini e perché il “divin codino, al suo primo anno nella Real Casa dopo il trasferimento, si procurò un calcio di rigore che poi rifiutò di battere. Sostituito, uscendo dal campo raccolse una sciarpa viola lanciata dai suoi ex sostenitori. Il gran rifiuto di calciare quel penalty, poi fallito da De Agostini, impedì a uno dei maggiori talenti espressi dal football nostrano di impiantare radici profonde nei cuori della tifoseria zebrata.

Momenti al calor bianco, talvolta sapientemente alimentato da dichiarazioni al vetriolo di Franco Zeffirelli che, immancabilmente, si traducevano in querele sporte da G. Boniperti, e in flussi di cassa per Madama.

Negli anni successivi, stante la consueta, insignificante competitività della discendenza dantesca, l’avversione al bianconero si è potuta esprimere unicamente con un ferreo ostracismo nell’agone del calcio-mercato, precludendo a Jovetić e Cuadrado l’approdo sotto la Mole, o interferendo; ricordate il caso di Berbatov?

Questo è il quanto; per Firenze la partita della vita, l’ “evento”, per i multistellati una tappa d’avvicinamento al tombolone peninsulare, sempre che i Campioni in carica vogliano concludere la settimana a pancia piena, ma a fine gara e non durante…

Augh.

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