Mi ricordo di Morata

Spesso è una questione d’approcci: luoghi, situazioni, amori. Spesso si rinchiude tutto in un’attesa: snervante, paziente, asfissiante. Un po’ meno spesso, una strada, finisci per trovarla. E ancor meno spesso, è quella giusta.

Ci sono storie senza un inizio, né una fine. Con picchi, alti e bassi, peripezie e vuoti di vita. Con frangenti impregnati di sudore e fatica, altri di sogno e passione. Altri di teste basse e panchine, perché quando non gira non puoi certo chiedere una tregua al destino.
Come si fa a scegliere per il meglio? Non esistono classi, non si tengono corsi, non è possibile inventarsi una strada verso il successo. Resta tutta una questione d’approcci: puoi essere maniacale, puoi essere strafottente, puoi essere entrambe le versioni. Magari a tuo modo, senza estremizzare.

Però i chilometri di Morata li ricordano tutti. Ma non c’entra la corsa, poco utile in questo caso anche il sacrificio: è il contorno a marcare la sottile differenza, in un piatto stranamente abbondante per essere di quelli che non ti rendono sazio. Perché in fondo l’avventura bianconera di Alvaro è stata questa: un meraviglioso antipasto, propedeutico per un futuro da gigantografie in piazza. E nulla in più.

Trovare la quadra nella propria vita è già di per sé un traguardo, andar via nonostante la bandiera conficcata nel nuovo luogo di appartenenza diventa tremendamente incomprensibile. Anche per chi naviga tra i giochi di mercato.
È che talvolta tornare a casa sa di passo indietro, per quanto Madrid e il Bernabeu siano elementi crudelmente (in senso buono) significativi, per quanto il Real resti tra le tre squadre più forti al mondo. Per quanto la storia dei blancos non sia seconda a nessuno, e non si offenda il nessuno in questione.
Senza però tanti minuti ad accompagnarti, quanto realmente il gioco si fa in grado di valere parte della candela?

La meraviglia delle risposte che saprà dare solo il tempo: sensazione impagabile per i divoratori seriali di responsi. Tifosi in primis, in attesa perenne del campo emana-verdetti, impazienti di proferire magiche paroline più urticanti di un’infezione all’occhio: “L’avevo detto, io”. Sarà: se ne dicono tante, troppe. Nel frattempo, alla vigilia di Italia-Spagna, sarebbe più opportuno (e più salutare) ricordare. Anche perché serbare rancore è uno sport efficace quanto l’ispettore Zenigata con Lupin.

Tanto per iniziare, mi ricordo di Alvaro perché è stato bello crescere con lui. Mi ricordo di Alvaro perché quella cavalcata nel suo primo anno, nel primo di Allegri, dell’ultimo Pirlo, Vidal, Tevez, ha ancora una scia facile da percepire. Profuma di occasione svanita, di quelle andate via sul più bello. E poi di speranza, di rinnovamento, di fiducia nel futuro. Gli occhiali rosa, alla Juve, tendono spesso a dimenticarli: ma non c’era istante in cui il domani facesse paura. Banner-Editoriale-Cristiano-Corbo

Mi ricordo di Alvaro perché è uno che ce l’ha fatta: è uscito dall’anonimato, si è fatto le ossa, ha sbagliato e si è rialzato. Ha vissuto rabbia e l’ha trasformata in carica, ha visto il mondo ed è rimasto lo stesso di sempre. Del resto, andarsene da re non è virtù comune: ché quanto vinci non ti rende più uomo o meno. Lo fa ciò che lasci. Al di fuori dei numeri, delle giocate, delle corse a perdifiato per ripiegare sull’avanzata precoce e dolorosa dell’esterno basso.

Alvaro non è mai stato il tipo da testa bassa e pedalare: sapeva costruirsi la sua concentrazione. Talvolta vittima dei momenti, sì: chi non lo è a poco più di vent’anni? Mi ricordo di Alvaro e del gol nella sua città che spalancò le porte del purgatorio. Mi ricordo di Alvaro perché lui non ha mai dimenticato Torino, la Juve, il bianco, il nero. Quando lo si rivedrà allo Stadium, toccherà applaudirgli. E ricordare. Ancora. Perché quella scia, alla fine, è parte fondamentale di una storia enorme: quella tra Morata e se stesso.

Ha alzato la testa, ha lottato, ha vinto: l’amarezza del ‘ciò che poteva essere’ non ha ormai più spazio. Né senso.

Cristiano Corbo

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